Albertin in Perlasca: non solo un monologo

Albertin in Perlasca: non solo un monologo

Un monologo avvincente, anzi di più emozionante e che ti incolla alla poltrona per circa due ore, quello di Alessandro Albertin, attore di origine veneta che ieri sera e venerdì ha recitato al Teatro ai Colli di Padova (Via Monte Lozzo, 16).

Più di 90’ minuti di emozioni tra voci venete, italiane, tedesche, ungheresi, tutte quelle che sa modulare Albertin, attore professionista uscito dalla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano nel 1999 e diplomatosi poi anche al Corso di perfezionamento sul metodo Stanislavskj tenuto da Massimo Castri. Un attore a tutto tondo che ha lavorato con i maggiori registi, Michieletto, Ottolini, Branciaroli, Calenda, Proietti e che si è dato generosamente al pubblico di Padova per l’ennesima replica de “Perlasca, il coraggio di dire di no” prodotto dalla compagnia Teatro degli Incamminati e con la regia di Michela Ottolini.

Alessandro Albertin, a tatro con "Perlasca: il coraggio di dire no". Credit foto Francesca Boldrin


La trama riprende parte della vita di Giorgio Perlasca, camerata fascista della bassa padovana (dove oggi riposa nel cimitero del piccolo paesino di Maserà di Padova dal 1992). Nello spettacolo si omette la parte giovanile della vita di Perlasca, la guerra in Etiopia e in Spagna e Albertin si concentra sull’evento di Budapest che lo ha reso Giusto tra le Nazioni cioè l’aver salvato dallo sterminio nazista migliaia di ungheresi di religione ebraica inventandosi un ruolo, quello di Console spagnolo, lui che non era né diplomatico né spagnolo. Questo gli riuscì anche perché conosceva lo spagnolo da quando era stato combattente volontario in Spagna a difesa di Francisco Franco nel 1936 e teneva con sé documenti spagnoli.


La pièce di Albertin è fatta di dialoghi in cui l’attore passa dall’italiano-veneto di Perlasca, al tedesco di Eichmann, allo spagnolo del console di Budapest, a voci femminile di una segretaria diplomatica e altro. Si sofferma in particolare sul drammatico incontro con il Ministro degli Interni ungherese Ernő Vajna avvenuto il 6 gennaio 1945, in cui il Giusto riuscì a dissuaderlo dal progetto minacciando sanzioni legali per la potenziale e probabile uccisione di cittadini “spagnoli”.


Albertin si muove dinamicamente sul palco, lo occupa, dominandolo, dal fondo al proscenio, da destra a sinistra, se ne fa padrone e riesce a trasmettere al pubblico le emozioni della vicenda, specialmente la paura degli ebrei di Budapest già stipati sui treni per Auschwitz. Due cubi neri, come il resto della scenografia e l’abito di Albertin, fanno il resto. La cupezza del palco è interrotta da luci, forse però fin troppo scarse, che dunque lasciano spazio solo alla parola, alle tonalità di voce, infine all’immaginazione dello spettatore.


Nelle parole di Albertin, non solo la descrizione dei fatti dall’interno, ma anche una sorta di metateatro quando confronta gli atti teatrali e della vita di Perlasca con una partita di pallone. Se il primo tempo la squadra ha vinto, rischia di perdere nel secondo. Energia, coraggio, impegno sono gli ingredienti per proseguire sul palco e… sulla vita. E così infatti alla fine della pièce fa Albertin quando narra di Perlasca, dopo il suo ritorno in Italia. La sua storia resta nascosta per anni e lui non racconta nulla, nemmeno in famiglia.


Se non fosse stato per alcune donne ebree ungheresi da lui salvate in quel terribile inverno di Budapest la sua storia sarebbe andata dispersa. Sono state queste donne a mettere, alla fine degli anni ’80, sul giornale della Comunità ebraica di Budapest un avviso di ricerca di un diplomatico spagnolo, Jorge Perlasca (così s’era fatto chiamare nel passaporto spagnolo) che aveva salvato loro e tanti altri correligionari durante quei mesi terribili della persecuzione nazista a Budapest. Alla fine della ricerca ritrovarono un italiano di nome Giorgio Perlasca.
Ora il suo nome si trova a Gerusalemme, tra i Giusti fra le Nazioni, e un albero a suo ricordo è piantato sulle colline che circondano il Museo dello Yad Vashem.

Anche a Budapest, nel cortile della sinagoga, il nome di Perlasca appare in una lapide che riporta l’elenco dei Giusti. Nel settembre del 1991, ricevette ufficiale riconoscimento dalla Spagna, che gli concesse il titolo di Comendador de la Real Orden de Isabel la Católica, consegnatogli dall’ambasciata spagnola a Roma su decreto del re Juan Carlos.
Nel 1990 la vicenda è stata divulgata anche in Italia, grazie ai giornalisti Enrico Deaglio (che scrisse di Perlasca nel libro La banalità del bene) e Giovanni Minoli, che accettò la proposta di Deaglio di realizzare un’inchiesta, nella trasmissione televisiva Mixer.
Nell’ottobre 1991 fu insignito dell’onorificenza di Grande Ufficiale al merito della Repubblica italiana. L’ultima onorificenza conferitagli fu la Medaglia d’oro al Valor Civile, il 25 giugno 1992.

Alla fine dello spettacolo Albertin si gode gli applausi prolungati e sonori del pubblico. Ad ogni uscita un successo, ad ogni bis un’emozione. Si ferma sotto le luci della ribalta, fa accendere anche quelle in sala per vedere il “suo” pubblico padovano. Sorride e si commuove, saluta prima composto, professionale, austero, poi si lascia andare alla lingua madre, mentre racconta di suo padre, barbiere di tradizione e figura di riferimento per lui, narratore di fatti, intrattenitore nella sua bottega, ma mai affabulatore. Ora tocca sul palco a suo figlio, l’attore Alessandro Albertin.

Credit foto: Francesca Boldrin