Un’opera di grande poesia è in cartellone al Teatro Verdi di Padova fino a domenica 16 aprile, La vita davanti a sé tratto dal romanzo di Romain Gary (1975): protagonista un Silvio Orlando bravissimo che dà voce alle avventure di Momò.
Ma chi è Momò? è un bambino che viene cresciuto da Madame Rosa in un appartamento al sesto piano di un palazzo nel quartiere multietnico di Belleville, a Parigi. La donna è un’anziana ebrea reduce dal campo di sterminio di Auschwitz che si occupa di crescere i figli di prostitute che per legge non possono tenerli con sé. Ma Momò – che è l’abbreviazione di Mohammed – non proviene da una famiglia ebrea, bensì musulmana. Non se ne conosce la madre; e il padre compare evocato nella narrazione che ne fa il ragazzo solo verso la fine della pièce.
Affamato di sentimenti, Momò suscita commozione e affetto. Il suo linguaggio è spesso crudo e esplicito, il suo incedere a volte dinoccolato e disinvolto, altre più impacciato come può essere quello di un bambino in una grande metropoli.
Sin dalle prime battute Orlando convince e ammalia: convince l’interpretazione di un testo di incredibile umanità, di speranza nella futura vita e povertà di beni materiali e ricchezza di pietà. Un sentimento che non è comune a tanti, anzi a pochi perché si paga a caro prezzo. Eppure la metamorfosi di Momò dalla innocenza fanciullesca all’età “adulta” è talmente coinvolgente che non si può far finta di niente. Si piange e si ride sulla vita di un singolo e sulla vita di tutti.
Ma oltre allo spettacolo in sé l’ “effetto Orlando” è prima e dopo lo spettacolo: prima in un sorprendente intervento di una voce fuori campo a sipario ancora chiuso che raccomanda di non far uso dei cellulari. In caso contrario l’opera comincerà ogni volta da capo. E a fine pièce con due bis di pezzi musicali. Lo spirito partenopeo di Orlando prende vita in un ritmo vorticoso che coinvolge la platea con applausi ritmati. Ciò che colpisce tra i tanti aspetti originali dell’attore è la voce che, superando a stento la barriera nasale, scende costipata, facendosi strada tra le file dei denti. Questa voce che a volte è donna (M.ma Rosa) altre uomo, altre ragazzo, in un ventaglio di toni e timbri proprio solo dei grandi attori.
Silvio Orlando esordisce nel mondo dello spettacolo lavorando nei teatri della sua città. Lungo gli anni ’80 collabora con i migliori autori e registi della scuola partenopea. Approda al cinema nel 1988, in un film di Gabriele Salvadores, Kamikazen – Ultima notte a Milano, e da allora è stato un crescendo di interpretazioni tra cinema, televisione e teatro, in ruoli incredibili che dimostrano il suo inestimabile talento. Dopo l’incontro con Nanni Moretti sul set di Palombella rossa nel 1989, lo ricordiamo nel ruolo del professor Sandulli nel film Il portaborse di Daniele Luchetti e l’anno dopo, nel 1992, nel dentista innamorato diretto da Mazzacurati in Un’altra vita. Ma solo per ricordarne alcuni: La stanza del figlio di Nanni Moretti del 2000, e Il caimano del 2006, nel 2008 Il papà di Giovanna di Pupi Avati. E a teatro? Un suo grande successo è stata la pièce La scuola, diventato anche un film cult.
Ma tornando alla pièce, oltre alle parole è la musica a convincere, grazie agli strumenti suonati sulla scena: la fisarmonica di Daniele Mutino, gli strumenti etnici kora e djembe di Kaw Sissoko, il clarinetto e il sax di Diego Mascherpa, la chitarra e le percussioni di Simone Campa.
Riduzione, interpretazione e regia sono dello stesso Silvio Orlando. Le scene originali e poetiche tra luci, cartapesta e trasparenze sono di Roberto Crea, il disegno luci di Valerio Peroni e i costumi di Piera Mura. La produzione dello spettacolo è di Cardellino.
Lo spettatore esce alleggerito, per una sera ha spento i propri drammi quotidiani dinnanzi alla voce di questo piccolo grande eroe della banlieu parigina che è Momò. Ogni suono e ogni parola alla fine sembrano ripetere, come il Mastroianni di Fellini, che la vita, malgrado tutto, è una festa, e allora va vissuta insieme.