Il panorama del Parco delle Dolomiti Friulane, verdeggiante e gentile, ammicca piano dai pendii, inglobando al suo interno una svettante lama di calcestruzzo.
A dispetto della sua mole, la struttura sembra fare il possibile per mimetizzarsi fra gli alberi: con i suoi oltre 260 metri d’altezza, è ancora oggi una tra le prime cinque dighe a doppio arco più alte al mondo, non utilizzata, eppure costantemente mantenuta come se lo fosse.
Sessant’anni fa, la mastodontica opera era la seconda al mondo in assoluto per le sue dimensioni imponenti, un gioiello dell’ingegneria tristemente destinato a non entrare mai in funzione: progettata tramite continue rielaborazioni dall’ing. Carlo Semenza, la diga fu inaugurata il 17 ottobre 1961, dopo quasi tre anni di lavori di costruzione e oltre trenta di studio teorico.
Malgrado gli sforzi fatti dalla Natura per accerchiarlo e nasconderlo, il gigantesco corpo della diga idroelettrica attira gli sguardi di chi passa e ricorda, stagliandosi contro la silenziosa roccia come la porta di un mausoleo, monumento a 1910 vite spezzate.
Teso verso il cielo sereno, ha radici che sprofondano nel dolore – e nella colpa.
50 minuti per ripercorrere la Storia
La visita guidata, della durata di circa un’ora, inizia presso la piccola chiesa posta accanto alla diga.
Si tratta di uno spazio sacro destinato alla commemorazione delle vittime del luogo, morte sul posto di lavoro: sei operai avevano perso la vita nel corso della costruzione dell’opera, mentre venti dei tecnici presenti il giorno dell’inondazione erano impiegati della ditta Torno, a cui era stata appaltata la costruzione della diga; altri quaranta facevano capo all’ENEL, all’epoca nuovo proprietario della struttura.
Nessuno di loro sopravvisse.
La cappella, edificata su progetto di Barcelloni Corte, è stata voluta dall’ENEL: l’Ente Nazionale per l’Energia Elettrica era infatti subentrato alla ditta SADE, originaria proprietaria della diga, nel marzo del 1963, circa sei mesi prima del disastro.
Il sole bagna di luce le griglie d’acciaio che circondano il camminamento sommitale, indicando al visitatore il percorso del coronamento: guardando verso il basso, balena tra i pensieri l’immagine di un dantesco Inferno, un inferno vissuto da anime che, tuttavia, non avevano peccati da scontare.
9 ottobre 1963: come si è arrivati al dramma
Per capire il percorso che portò al rovinoso smottamento delle ore 22.39, occorre guardare indietro, alla storia geologica del posto.
165 milioni d’anni fa, l’intera area faceva da collegamento tra una distesa marina relativamente bassa e una che raggiungeva i 1.000 metri di profondità.
Gli strati incoerenti qui sedimentatisi diedero luogo, nel tempo, a numerose frane: da quella detta “della Pineda”, crollata ormai migliaia di anni fa, a quella di Pontesei, che il 22 marzo del 1959 provocò un’ondata alta venti metri e una sola vittima.
La stratificazione che ha dato origine ai rilievi intorno alla valle del Vajont si configurava già come instabile, data la commistione di calcari e argille che la costituivano; i continui eventi franosi registrati sino a epoche molto recenti ne erano lampante testimonianza.
Ultimo campanello d’allarme fu lo smottamento avvenuto tre anni prima del disastro definitivo: purtroppo, non trovò orecchie che sapessero ascoltarlo.
Uomo avvisato…
Il 4 novembre del 1960, all’incirca verso mezzogiorno, 700.000m3 (secondo alcune fonti, 800.000m3) di roccia si staccarono dal Toc, senza causare vittime: gli edifici che vennero invasi dall’onda erano già stati abbandonati perché si sarebbero trovati sotto il livello del lago artificiale, case e terreni che SADE aveva acquisito – peraltro – con una pressante politica di esproprio, tutt’altro che conciliante verso le necessità degli abitanti di Erto e Casso.
A seguito dell’evento, alcuni boscaioli segnalarono un preoccupante fenomeno collaterale: sul versante del monte, infatti, si era aperta una frattura curvilinea larga da mezzo metro a un metro, disegnando una “M” sul terreno. L’intero perimetro della spaccatura era lungo due chilometri e mezzo: un valore perfettamente coincidente con la dimensione del fronte franoso che si sarebbe staccato dal monte di lì a poco.
Simulazioni e prospettive ottimistiche
La Società Adriatica Di Elettricità, a quel punto, assicurò che, anche nel caso in cui la frana fosse precipitata nel lago, il livello di sicurezza delle acque sarebbe stato quello dei 700m slm, una previsione tanto favorevole quanto irrealistica. Quello considerato non era affatto lo scenario peggiore: la pericolosità di quanto stava accadendo non fu compresa o, meglio, non volle essere compresa, stroncando sul nascere ogni possibilità di salvaguardia.
La maggiore preoccupazione, nei tre anni seguenti, fu quella di creare una galleria di bypass che aggirasse l’area che, si stimava, sarebbe stata occupata dallo smottamento, per raggiungere l’acqua dall’altro lato e continuare a far funzionare la diga anche in presenza di un ipotetico doppio bacino idrico, costituito dalle due metà del lago originale separate dalla frana.
Lo scenario successivo al rapidissimo crollo di 270 milioni di metri cubi di roccia, precipitati di colpo all’interno di un bacino già colmo di 115 milioni di metri cubi d’acqua, non somigliò neanche lontanamente a quanto prospettato dai calcoli proposti dalla ditta veneziana.
I numeri della calamità
La mole di roccia si scaraventò contro il lago in una manciata di secondi: meno di mezzo minuto, secondo le stime. Alla velocità di circa 100km/h, impattò contro la superficie del bacino dividendone effettivamente le acque, ma in due onde anomale che si diressero in due direzioni, una verso Erto e Casso, l’altra verso Longarone, spazzando via quest’ultimo e lasciandone intatti soltanto due edifici, il municipio e il campanile di Pirago.
La diga sopportò una pressione molto superiore a quella per cui era stata progettata, funzionando di fatto come una barriera limitatrice dei danni conseguenti allo smottamento: pur essendo causa del disastro, ne fu anche parziale guardiana nel momento in cui resse l’impatto di acqua e detriti, senza riportare nemmeno una crepa.
In un primo momento, con l’abbassamento lento e controllato del livello delle acque all’interno del lago, la frana si era stabilizzata: la causa scatenante della ripresa rovinosa del moto fu la nuova modifica del livello delle acque per il terzo invaso di collaudo, quello fatale.
Occorsero circa quattro minuti perché l’acqua, spostata dalla frana, trasformasse l’intera Longarone in un cumulo di fango, lasciando una palude cosparsa di rovine al posto della città.
Dopo tanti lavori fortunati e tante costruzioni anche imponenti, mi trovo veramente di fronte ad una cosa che per le sue dimensioni mi sembra sfuggire dalle nostre mani
– Carlo Semenza, 1961
Vivere per la memoria
Ora, questi luoghi mostrano un viso amico, accogliendo il visitatore a braccia aperte.
L’ape vola sul tarassaco, mentre le more selvatiche crescono quiete sul nuovo suolo della frana: il frammento di un paesaggio straziato saluta dolcemente chi passa, ricordando all’uomo, con i suoi colori, che la natura ricolma di bellezza persino le più profonde cicatrici.
Ciò che successe non fu un disastro ambientale, ma una tragedia forgiata da numerose scelte contrarie al buon senso, prima fra tutte quella di non dare ascolto agli abitanti del luogo, che la loro montagna la conoscevano bene.
Ciò che successe va ricordato, perché la lezione appresa a così caro prezzo ci renda consapevoli che essere custodi dell’ambiente significa essere custodi di noi stessi. Porre attenzione all’impatto umano sulla Terra è, a livello globale, l’equivalente di evitare il dissesto idrogeologico di un versante montuoso: fare un passo indietro, anche solo per capire meglio ciò a cui si sta andando incontro, può fare la differenza.
È possibile visitare i luoghi del Vajont ogni domenica d’ottobre, con un’apertura straordinaria prevista per il 1° novembre. Nella stagione estiva, solitamente, il percorso guidato è disponibile nei giorni di sabato e domenica, mentre è quotidiano da fine luglio a inizio settembre.
Ogni ultima domenica di settembre, inoltre, è possibile partecipare ad una passeggiata della memoria che attraversa anche le strade (altrimenti chiuse) che rimangono al di sotto della diga: l’edizione 2020, a causa della pandemia, è stata sostituita da un documentario disponibile online, ma quella del 26/09/2021 ha visto nuovamente la marcia in presenza.
Anche le parole possono marciare e avere un’eco: è importante che questo suono non si spenga.
Immagini a cura dell’autrice