Da Longarone, la vista sulla diga è completamente diversa.
La lama di calcestruzzo è una virgola tra due montagne, un segno di punteggiatura apparentemente lontano: la separano dalla città poco più di un paio di chilometri, distanza coperta a 80 chilometri orari dall’acqua che si sollevò dal bacino idroelettrico la notte del 9 ottobre del 1963.
In quattro minuti dalla caduta della frana, Longarone è in macerie.
Siamo in Piazza Pietro Gonzaga, pittore e scenografo che nacque qui, a Longarone, nel lontano 1751.
Pochi forse immaginano che la città abbia una storia ben più antica degli anni Sessanta, perché pare già antico quel che c’era prima del Vajont, un ricordo color seppia immortalato in fotografia e a fatica risorto dalla devastazione.
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Il museo “Attimi di Storia” raccoglie numerose immagini in bianco e nero della Longarone distrutta dalla piena: racconta la storia di un paese vivo, ardente di tradizioni, bellezza e umanità.
Il luogo, già noto dall’epoca romana, vede succedersi al potere Ezzelino da Romano, gli Scaligeri, i Carraresi e i Visconti, per poi divenire dominio veneziano.
Fra il XVII e il XIX secolo, ricche famiglie di commercianti – tra cui Mazzolà, Sartori, Cappellari, Campelli, Stefani e Pellizzaroli – contribuiscono allo sviluppo urbanistico dell’abitato, che diventa un florido centro industriale: la “perla della provincia di Belluno”, come la definisce un superstite.
Il Novecento a Longarone, prima del Vajont
Gli eventi salienti, per il Novecento, furono certamente le due guerre mondiali.
Durante la Prima fra le due guerre, in particolare, la città è stata teatro di una famosa battaglia, svoltasi tra il 9 e il 10 novembre del 1917. In quell’occasione, la brigata in cui militava l’allora giovanissimo Erwin Rommel riuscì in un’azione che guadagnò ai tedeschi un immenso bottino in termini di armi, mezzi e prigionieri: l’evento non svoltò l’esito del conflitto, ma fece appuntare al petto del Tenente Rommel – venticinquenne – la medaglia al merito.
Nel secondo dopoguerra, l’orizzonte bellico lasciò il posto a più pacifiche attività di promozione del territorio: nell’inverno del 1957, per esempio, nacque il primo germoglio della MIG – Mostra Internazionale del Gelato, che si tiene ancora oggi a Longarone.
Tutto iniziò con l’idea del proprietario di un bar della città, che decise di allestire nel proprio locale una piccola esposizione di macchinari per fare il gelato, richiamando la curiosità degli avventori. Altri esercenti si aggregarono all’iniziativa, finché il sindaco De Vecchi non inaugurò la prima Mostra Internazionale, con la partecipazione di diciotto ditte nazionali ed estere. Era il 1959.
Dopo il Vajont: i processi
Nel precedente articolo di questa rubrica ci siamo già soffermati sugli eventi che provocarono la frana e la catastrofe che ne conseguì.
A Longarone, la sera del 9 ottobre del ’63, la gente era radunata all’interno dei bar, per assistere alla partita fra il Real Madrid e i Glasgow Rangers: prima mancò la corrente, poi, nel buio del cortocircuito, anche l’acqua raggiunse il paese, annullandolo e creandovi all’interno un lago profondo una quarantina di metri.
Intorno, la più completa desolazione.
Per i tre mesi successivi, una Commissione d’Inchiesta raccolse i dati fondamentali per redigere una relazione su quanto accaduto, in previsione di un processo che si sarebbe aperto soltanto quattro anni più tardi, nel 1968, all’indomani di una lunga fase istruttoria.
A questa data, due degli accusati erano già morti (l’ing. F. Penta, componente della Commissione di Collaudo della diga, e il presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici L. Greco), mentre un terzo, l’ing. Mario Pancini, si era tolto la vita poco prima di sostenere il primo grado di giudizio.
Condannati in questa sede furono A. Biadene (direttore del Servizio costruzioni idrauliche della SADE), C. Batini (presidente della IV sezione del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici) e A. Violin (ingegnere capo del Genio Civile), ma soltanto a sei dei ventuno anni di carcere richiesti dall’accusa (per Violin, ne erano stati chiesti 9).
Il processo procederà con una sentenza d’appello, un ricorso in Cassazione e un ulteriore procedimento giudiziario (civile, questa volta) relativo ai risarcimenti, conclusosi soltanto nel 2000: una lenta agonia per le parti lese coinvolte, sfibrate dall’attesa.
L’unica conquista morale viene dalla sentenza di secondo grado, poi confermata il 25 marzo 1971: è stabilita la prevedibilità dell’evento, la natura colposa delle azioni degli accusati, in particolare Biadene e Sensidoni (capo del servizio dighe del Ministero dei Lavori Pubblici e membro della Commissione di Collaudo della diga), e la gravità della natura del reato di frana, inondazione e omicidio colposo plurimo.
La documentazione prodotta nel corso degli anni è immane: il materiale, inoltre, non è raccolto e reso facilmente disponibile online, come pure si era progettato di fare.
Tra la fine degli anni ’90 e l’estate del 2000 si svolsero e giunsero a conclusione anche i procedimenti civili; la Montedison, che aveva acquisito per fusione la SADE, cedette al Comune di Longarone all’incirca 77 miliardi delle vecchie lire come compensazione dei danni. Cinque di quei miliardi furono destinati esclusivamente alla fondazione di un’associazione che studiasse “i problemi ecologici della montagna alpina”, fondazione effettivamente nata ad ottobre del 2003.
“Si poteva imparare”
Il Comune di Longarone è gemellato con il Comune di Tesero, che nel 1985 venne colpito da un’inondazione di fango in cui morirono 268 persone (disastro della Val di Stava): anche dopo il Vajont, incidenti prevedibili e/o evitabili continuarono a verificarsi, così come accadono al presente.
Uno dei pannelli che più colpiscono, al museo “Attimi di Storia”, raccoglie le date di “alcune tragedie avvenute in Italia dopo il disastro del Vajont per aver sottovalutato la sicurezza” e l’importanza della tutela delle persone.
Vengono qui citati il terremoto nella Valle del Belice (Sicilia, 1968), in cui crollarono molti edifici non antisismici per un totale di 370 vittime; il terremoto dell’Aquila del 2009, in cui per le stesse motivazioni perirono circa 300 persone; l’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl, verificatosi a seguito di una lunga lista di errori umani. Si arriva fino ai giorni nostri, con il crollo del Ponte Morandi di Genova (agosto 2018, 43 vittime) e della funivia Stresa-Mottarone (maggio 2021, 14 vittime).
Su uno schermo, a chiusura della visita, scorrono i nomi delle vittime: occorrerebbe un’ora di tempo per leggerli tutti, dal primo all’ultimo, nonostante l’elenco non scorra piano.
Le dimensioni della tragedia
Cinque chilometri a sud di Longarone, sul territorio di un ex campo di mais, sorge il cimitero monumentale di Fortogna, forse il luogo della memoria più importante. Qui sono raccolti i cippi di marmo che ricordano ciascuna delle vittime, quasi una per ogni metro d’altezza del Toc: è un “monumento alla pietà e alla sacralità della vita”, in grado di rendere le dimensioni della catastrofe a colpo d’occhio.
Sulla destra rispetto all’ingresso, il complesso scultoreo realizzato da Franco Fiabane commemora i soccorritori, i superstiti – in particolare, i migranti che tornarono senza poter ritrovare la propria casa – e i bimbi mai nati, in un trittico che invita a ricordare chi è arrivato dopo l’ondata, chi c’era prima ed è rimasto in seguito e chi, invece, non è mai potuto venire al mondo.
Prima il fragore dell’onda, poi il silenzio della morte, mai l’oblio della memoria.
A noi, che apprendiamo i fatti dalla storia, resta il dovere di conservarne il ricordo per il futuro.
Immagini a cura dell’autrice